lunedì 30 giugno 2008

¡¡ Campeones !!

Finalissima
Spagna - Germania 1-0
(F. Torres)

Da giorni ormai, la Spagna si sveglia la mattina canticchiandosi nelle orecchie il ritornello “podemos”. Vivere un sogno si può, specie se la notte non riesce ad uccidertelo. E il Paese si agita a mille, come una bottiglia di champagne pronta per essere stappata. Stavolta ci si può strappare di sopra l’etichetta di “belli ma perdenti”. Si, si può.
Una nazione che si riconosce negli occhi nel niño Fernando Torres quando scavalca Lehmann con quel pallonetto fatato mettendosi il dito in bocca. Una nazione giovane, come una bimba, gasata e pronta a spaccare l’Europa. Una nazione che fa del coraggio di Aragones la sua arma principe. Il coraggio di lasciare Raul, bandiera iberica, a casa. Il coraggio di schierare quella rivelazione di Senna a centrocampo (che Santa Rosalia gli illumini la strada per Palermo!). Il coraggio di far prendere fiato proprio a Torres quando occorre. Il coraggio di affrontare tutti a viso aperto, chiudendo i conti sempre nei 90’, tranne – e lo diciamo con sano patriottismo – che con quegli indiavolati Azzurri che poco ne hanno voluto sapere di lasciar facilmente libera la strada. Furono rigori, proprio quei rigori che fecero ruggire i guantoni del capitano Casillas, uno fin troppo bravo per non poter mettere sopra il camino un trofeo di questo genere. Una nazione che finalmente ha smesso di ammirarsi allo specchio arrivando in ritardo all’appuntamento con la storia.
Domani mattina la Spagna si sveglierà e per la prima volta non canticchierà il solito ritornello. Perché la notte, questa volta, i sogni se li è portati via tutti. Ma non è riuscita a portarsi via la Coppa. Che è ancora li, a ricordare che quella palla, il niño l’ha buttata dentro per davvero. E la Spagna è ancora Campione d’Europa.

Enricuzzu

(nella foto in alto) L'esultanza di Fernando Torres al gol dell'1-0
(nella foto in basso) La Spagna alza la Coppa

venerdì 27 giugno 2008

Kebap e vodka? Sconfitti, scontenti ed... ammirati.

Semifinali
Germania - Turchia 3-2
Spagna - Russia 3-0


La sconfitta ha un sapore amaro. Un sapore che ti
lascia in bocca quella sensazione bruttissima, quel gusto orrendo che non avresti mai voluto assaggiare. E’ il paradosso di questo Europeo 2008: quando stai per toccare il cielo con un dito, scivoli e cadi. E cadere dal cielo, fa davvero tanto male. E’ capitato all’Olanda, che stava dipingendo d’arancione quello sguarcio sopra le nuvole, è capitato al Portogallo che quell’angolo di cielo lo ha visto vicino come non mai. E’ capitato anche a noi italiani, anche se il cielo lo abbiamo visto da lontano, e forse cadendo, ci siam fatti meno male. Infine, il cielo con un dito, ma stavolta davvero, lo hanno toccato turchi e russi. Coloro che abitano a metà fra Europa e Asia. Coloro che all’Europeo, in mezzo ai grandi, ci sono entrati in punta di piedi. E hanno preso a ceffoni a tutti.
Da un lato la Turchia, quella squadra che ha dato un nuovo significato alla parola ‘cuore’. Quella squadra che il suo cielo lo ha sempre toccato all’ultimo secondo, quando gli altri ormai non ci credevano più. Ne ha approfittato per l’ultimo guizzo, verso lassù. Quella squadra che d’improvviso si è trovata sola, con gli uomini contati e non ha fiatato. Senza attaccanti ma con la tranquillità di affermare “…nessun problema, schiereremo il terzo portiere in avanti”. Roba da far ridicolizzare noi italiani che abbiamo pianto il Cannavaro infortunato. Repubblica Ceca, Croazia, a momenti anche la Germania. Tutte così, all’ultimo soffio sull’erba. Ma il destino crudele ai turchi aveva scritto, che chi di 90’ ferisce, di 90’ perisce.
Dall’altro lato la Russia. La squadra degli innominabili, degli sconosciuti. Quelli che sono entrati in Svizzera e Austria con la devastante potenza di una transiberiana, abbattendo tutto ciò che gli si frapponesse davanti. Quelli che il nome del loro centravanti, Pavlyuchenko, ce l’hanno insegnato a forza di gol. Quelli che solo la Spagna, nel silenzio di chi sa di custodire un segreto inenarrabile, è stata in grado di fermare. Per due volte, tante sufficienti a non parlare di fato.
Non resta che l’onore delle armi, e la giustizia morale di non far uscire due squadre cosi, a testa bassa, nel silenzio di chi lascia la scena ai vincenti. Non resta altro che deglutire l’amaro, e lasciar spazio al dolce di chi c’ha provato più degli altri. Di chi non si è arreso. Non resta che tuffarci nella cucina tipica, nelle tradizioni, nel folklore. Un kebap da un lato, ed una vodka dall’altro lato. Con la consapevolezza che almeno in queste occasioni, il palato non perde mai.

Enricuzzu

(nella foto in alto) Il fantasista Andrei Arshavin, stella russa
(nella foto in basso) La delusione del turco Hakan Balta

lunedì 23 giugno 2008

Adios, Italia...

Quarti di Finale
Italia - Spagna 2-4 d.c.r. (0-0 d.t.s)

E’ andata.
Ed è andata proprio come non c’aspettavamo potesse andare. Perché diciamocelo, ormai i rigori li sentivamo molto “italiani”. Convinti più che mai che, dopo aver abbattuto il muro Oranje nel 2000 per mano di Toldo e aver conquistato la Coppa a Berlino buttandone dentro addirittura cinque su cinque, un’altra lotteria, in fondo, era facile vincerla. Ed invece non ci restano che gli sguardi di De Rossi e Di Natale, che andranno a far compagnia a quelli di Baggio, Baresi e Di Biagio, in un quadro che ci ricorda che la nostra storia azzurra, dagli undici metri è passata anche in negativo.
Chiedersi cosa ci è mancato in questi Europei poi, è la classica domanda un po’ masochistica che ci potremmo fare fra una lacrimuccia e un bicchiere di vino. Forse è mancata quell’incontrollabile fame di vittoria che ci ha accompagnato due anni prima in Germania. Perché se una cosa non ce l’hai, smuoveresti mari e monti per farla tua. Ma appena la conquisti, cominci ad aver paura di perderla. E la paura spesso si sa, fa la differenza fra gloria e miseria. Forse è mancato un CT che ha come unica colpa quella di aver avuto strada facile verso Coverciano. Forse sono mancati quegli uomini in pantaloncini e calzettoni, che boccheggiavano esausti già nel secondo tempo (tanto quanto gli spagnoli), facendo passare la folle corsa dei russi, qualche giorno fa, al 120’ del secondo supplementare, come una follia aliena. O forse, chissà, è mancato altro.
Da qualche settimana a questa parte, infatti, dalle parti della Spagna tutta la nazione, incita a non mollare. "Podemos" è il motto, possiamo. E credere in se stessi, è il primo passo verso la vittoria. Un atteggiamento che nel nostro Paese è solo utopia. Un Paese che sputa sulla Nazionale per poi coccolarla solo con la Coppa in mano.
Poi si potrebbero fare tanti altri discorsi, spendere tantissime altre parole e magari ci si ritrova nuovamente ai calci di rigore. E a quel punto, puoi essere un grande campione o un normalissimo Enricuzzu, non ti resta che alzare gli occhi al cielo, incrociare le dita e prendere la rincorsa. Sapete come si chiama? Calcio.

Enricuzzu

(nella foto) La disperazione di Totò Di Natale

venerdì 20 giugno 2008

Peppino Biava. Il soldato rosanero.

Ci sono uomini troppo normali per essere degli eroi, ma troppo eroi per essere normali. Degli uomini condannati a vivere nella linea di mezzo che separa l’ombra dalla luce dell’Olimpo. Quegli uomini che in silenzio compiono mirabolanti gesta e infine chinano la testa, lasciandole raccontare ad altri, i quali si spera, sappiano usare bene le parole per descriverne adeguatamente l’immensità.
La gente ammira l’eroe che infila il colpo finale nel petto del nemico, ma non degna di uno sguardo colui che le spalle dell’eroe le ha coperte a suon di fendenti da mille nemici. E l’anonimo soldato si ritrova da solo a pensare che il destino non gli ha donato la potenza di Bresciano, ne i piedi di Amauri, ne tantomeno la fantasia di Miccoli. Ma solo un cuore grande cosi, che a fatica si contiene nel petto. Quel petto su cui è cucita quella maglia rosa che in molti han tentato di staccargli senza esito. “Da Palermo non mi muovo”, sibilò con occhi bassi un caldo pomeriggio di quest’estate, quando volontà superiori lo volevano lontano. E nessuno fiatò più. E lui continuò a correre, illuminandosi d’immenso alla vista delle maglie avversarie. Quelle che lui sa come fermare, come afferrare fra le dita e lasciarle dimenare fino allo sfinimento. Ibrahimovic di qua, Kaka di la, Del Piero così, Totti colì. Il soldato nell’ombra li ha fermati tutti, buttandoli faccia a terra, in barba al loro blasone. Nel silenzio di una goccia di sudore che scivola lenta dalla fronte fino al cuore. C’è chi lo fa per la gloria, chi lo fa per la maglia. Perché la gente si alzerà in piedi ad un tacco di Cavani, ma abbozzerà solo un applauso al decimo recupero del soldato nascosto. Quello invisibile. Quello che ti abbatte i nemici alle spalle. Quello che i nemici, appena lo vedono uscire coi crampi, salutano coi gradi di un generale, tirando un respiro di sollievo. Fiuu, meno male che non c’è più. Perché per un cuore che vuole volare, ahimè c’è una gamba che trema. Stavolta da Palermo lo hanno fatto muovere. E se nel calcio non ci sarà mai riconoscenza, il soldato rosanero saprà sempre che Palermo, per lui, verserà lacrime e scroscerà applausi sonanti.
Perché grandi calciatori si può anche diventare, ma Peppino Biava si nasce.

Enricuzzu

LA LETTERA DI BIAVA

I gol di Toni, la rete di Emanuele Filippini e la festa che esplode vera, genuina, indimenticabile. Una festa che fa parte della mia vita. Quel 29 maggio non lo dimenticherò mai. E’ il giorno in cui il “mio” Palermo ritornava in serie A dopo tanti, troppi anni trascorsi lontano dal calcio che merita una città straordinaria. Io, che avevo sempre giocato nella mia terra e sempre in campionati lontano dalle cronache nazionali, mi sentivo quasi un 'intruso' in quella squadra di campioni e in quel palcoscenico straordinario che è lo stadio Renzo Barbera. Uno stadio che, anno dopo anno, è diventato casa mia, così come considero casa mia una città che mi ha fatto crescere tanto, tantissimo come calciatore, ma soprattutto come uomo. Mi dicevano che Palermo fosse una “piazza esigente” e che “metteva troppa pressione”, io, sinceramente ho conosciuto “un’altra” città. Una città che ti accoglie con affetto, ti riempie di attenzioni, ti abbraccia ad ogni angolo di strada e ti incita ad ogni minuto di partita. Non ho segnato i gol di Toni o Amauri, non ho messo in mostra la classe di Corini o Zauli e non ho la falcata di Grosso, eppure la gente di Palermo mi ha ugualmente fatto sentire un campione come loro. Grazie a Palermo, e grazie al Palermo sono diventato un calciatore di serie A ed un calciatore di Coppa Uefa giocando in stadi che pensavo fossero per me “inaccessibili”. Devo ringraziare il presidente Zamparini che mi ha sempre apprezzato e devo ringraziare il direttore Foschi che mi ha voluto in rosanero quando giocavo nell’Albinoleffe. E devo ringraziare tutta quella gente che lavora nell’ombra per fare grande il Palermo. Ma un grazie, vero e sincero, attraverso gli amici di stadionews, lo devo ai tifosi rosanero che oggi lascio dopo cinque splendide, straordinarie, indimenticabili stagioni trascorse insieme. Spero che il Palermo possa raggiungere un giorno il traguardo della Champions League. Quel giorno io sarò allo stadio a tifare insieme a voi per i colori rosanero.

Beppe Biava

(fonte della lettera e della foto: http://www.stadionews.it/)

mercoledì 18 giugno 2008

L'Italia s'è desta...

Girone C
Italia - Francia 2-0
(Pirlo rig., De Rossi)

Recitava un vecchio detto swahili, “…un leone con piccoli attributi, deve compensare con un gran ruggito”. Ruggito che sembra esser uscito per giorni e giorni dalla bocca di quel Raymond Domenech, intento a coprire di ridicolo una nazione ed una nazionale, l’Italia, probabilmente per mascherare, con insospettata maestria, una nazionale, la sua, che di attributi mancava fin dalla partenza. Una nazionale, quella francese, organizzata e gestita con straordinaria follia dal tecnico transalpino, che altro non poteva condurre, se non nel baratro, i blues.
Nell’altra metà campo le altre magliette blu. Quelle più scolorite, tendenti all’azzurro per intenderci, che per una sera son diventate perfino bianche. Quelle magliette che sono uscite dal campo bagnate fradice di sudore, come tutti noi volevamo. Quelle magliette a cui serve - come dopo lo squallidissimo gironcino mondiale nell’82 o lo scandalo calciopoli nel 2006 - essere ricoperte di critiche, di insulti, di maldicenze, di offese a volte, per arrabbiarsi sul serio e giocare al gioco del pallone. E allora critichiamo, insultiamo, non smettiamo di alimentare questo circolo vizioso che solo noi italiani sappiamo giostrare. Tutti fighetti. Tutti bamboccioni. Tutti quaquaraqua. Non smettiamo di andare contro noi stessi, anche se spesso mentiamo, se il risultato è vedere De Rossi che corre come un forsennato per tutto il campo a festeggiare, inseguito dai compagni verso i Quarti di Finale. Il fermo immagine della RAI su Domenech che si morde il labbro poi, è come un sublime regalo che la televisione nazionale ha voluto omaggiare ad un Paese in festa.
La dedica finale va agli spagnoli. Quelli che ieri avevano titolato a lettere cubitali sui loro giornali, facendo filtrare la puzza della paura, “Olanda, elimina gli Azzurri”. Il tutto, senza fare i conti con l’immensa e mai abbastanza ammirata sportività Oranje che, schiantando la Romania con le magie di Van Persie e Huntelaar è riuscita a rispolverare per davvero la parola SPORT.
Sorpresina: l’Italia c'è ancora. España, estamos llegando!

Enricuzzu

(nella foto in alto) Gianluigi Buffon, portiere azzurro
(nella foto in basso) L'esultanza dell'Italia al termine della gara

sabato 14 giugno 2008

Mamma, il biscotto non lo voglio...

Girone C
Italia - Romania 1-1
(Mutu, Panucci)

Da piccini i biscotti sono come piccoli premi che ci mettono nelle mani se abbiamo fatto i bravi. Croccanti, zuccherosi, simpatici anche da guardare prima di assaggiare. Ma quando cresci cambia tutto. Da grandi, i biscotti ce li mettono in mano se ci vogliono far male, se di buono non abbiamo fatto nulla o almeno così vogliono farci credere. Da grandi i biscotti diventano amari, duri e difficili da digerire. Da mandar giù non senza buttar giù anche una lacrimuccia.
Se martedì sarà “biscotto” non resteranno che i saluti e una veloce telefonata a casa, “...mamma, torno prima stavolta”. Ed il pensiero che ci si può trascinare nel baratro anche i “simpaticissimi” francesi onestamente poco ci consola. C’è chi si diverte ad attaccare gli altri, e c’è chi si diverte ad attaccare, più onestamente, se stessi. Se martedì sarà “biscotto”, ciao ciao. E lo potrebbe essere in tante di quelle maniere che la fantasia ci sguazzerebbe dentro alla grande. Ci si potrebbe anche immaginare un’Olanda che giochi a passeggiare per il campo in cerca di quadrifogli, o un’Olanda - quella vera - accoccolata in panchina per lasciar spazio alle allegre riserve. O magari ci si potrebbe immaginare un rigore alla Romania e siamo tutti felici. Anche se il rigore non dovesse starci, un fischietto qua e non se ne accorgerebbe nessuno… d’altronde, uno peggio di quello assegnato contro il Belpaese azzurro ieri si faticherebbe ad immaginarlo: quella trattenuta che non avrebbe avuto il coraggio di fischiare neanche Piturca, CT romeno.
Ci si potrebbe passare una serata intera a discutere su come potrebbero darci i biscotti, possibilmente dopo aver messo a letto i bambini che son troppo piccoli per sentire queste cose brutte. E proprio su quelli, sui bambini, possiamo fare il nostro unico affidamento. Che il buon Marco Van Basten pensi a loro martedì quando manderà i suoi Oranje in campo. Pensi allo sguardo dei bimbi italiani che il biscotto, questa volta, proprio non lo vogliono. Vogliono solo poter credere nello sport. Quello vero.

Enricuzzu

(nelle foto) La delusione dei tifosi azzurri a Zurigo

martedì 10 giugno 2008

Arance amare

Girone C
Italia - Olanda 0-3
(Van Nistelrooy, Sneijder, Van Bronckhorst)

Le arance sono un delizioso dono che Madre Natura ha donato alla Sicilia. Un frutto che da solo incorpora, nel dolce e nell’aspro, i gusti di una terra, i sapori di un popolo ed i suoni della sua storia. Quei sapori che solo nell’Isola puoi imparare a gustare a pieno, in una calda giornata primaverile.
Se ti allontani dalla Sicilia però, il rischio è grande. Scordi il vero sapore delle arance, e vai dritto verso altre, nel dubbio, nella speranza di non errare. Ti allontani mentalmente da una terra, come ha fatto Andrea Barzagli da due anni a questa parte, sprezzante nella sicurezza di saper trovare le giuste arance anche in terre lontane. E ti ritrovi dalle parti di Berna, a riceverne tre di arance, tutte in faccia, e per giunta scoprendo che non sono ne dolci ne aspre. Sono amarissime.
Scordi tutto, scordi che nell'entroterra siculo, spopolano le 'arance rosse', quelle sanguigne, e scordi che sapore ha proprio quella voglia di sangue agli occhi, di non mollare mai, di crederci sempre. Si raccoglie quel che si semina, in ogni campo, dal calcio all’orticello e per chi ha seminato malavoglia e scarso agonismo negli anni, c’è da raccogliere una figuraccia all’Europeo. E a noi che resta? A noi resta quel retrogusto amaro, figlio della sconfitta più pesante che il nostro Paese ricordi negli ultimi anni. Magari un bicchiere di vino toglierà il sapore. Ma la bottiglia prima o poi finirà e a noi non resterà che imparar a scegliere meglio la frutta.

Enricuzzu

(nella foto) Il titolo del quotidiano olandese De Telegraaf