giovedì 31 gennaio 2008

Palermo e Sport Boys. Quando il rosanero è il colore dell'amicizia...

Se è vero che i fratelli dispersi si riconoscono con la prova del DNA, allora il Palermo ha dei fratelli lontanissimi, dispersi nelle lande peruviane: gli Sport Boys di Callao. E la prova del DNA è la stessa maglia rosanero che indossano. Rara al mondo pallonaro, come poche altre cose. Fondata nel 1927, la squadra dei los rosados ha vinto, ridendo e scherzando, ben 6 titoli nazionali peruviani (l’ultimo nel 1984) e si è qualificata più volte per la Copa Libertadores.

Per noi è Maurizio Zamparini, per loro è Luis Matos Guerra. Per noi sono Miccoli-Cavani-Amauri, per loro sono Rodriguez-La Rosa-Vildoso. Per noi è lo Stadio ‘Renzo Barbera’, per loro l’Estadio ‘Miguel Grau’. Ma cosa fondamentale, per noi è rosanero… e per loro anche! Chissà se un giorno queste due squadre potranno sfidarsi in amichevole, sancendo un gemellaggio intercontinentale. Di sicuro, quando verrà quel giorno, ci sarà da ridere su chi dovrà indossare la prima maglia!

Forza Sport Boys, tutta Palermo è con voi!

versión español

Si es correcto que los hermanos desaparecidos se reconocen con la prueba del DNA, en este caso el Palermo tiene hermanos muy lejano, desaparecidos en la tierra del Perù: el Sport Boys del Callao. Y la prueba del DNA es la misma camiseta rosa y negra que llevan. Mucho rara en el mundo de la pelota, en el mundo del fùtbol. Fundado en 1927, lo equipo rosado tiene 6 tìtulos nacionales en el Perù (ultimo en 1984) y se ha clasificado a la Copa Libertadores en màs de una ocasiòn.

Para nosotros es Maurizio Zamparini, para ellos es Luis Matos Guerra. Para nosotros son Miccoli-Cavani-Amauri, para ellos son Rodriguez-La Rosa-Vildoso. Para nosotros es lo Estadio ‘Renzo Barbera’, para ellos es lo Estadio ‘Miguel Grau’. Pero cosa fundamental, para nosotros es rosa y negro... ¡y para ellos lo mismo! Quièn sabe si un dìa estos dos equipos podrìan desafiarse en un partido amistoso, sancionando un hermanamiento intercontinental. De verdad, aquel dia habrà que reìr sobre quien llevarà la camiseta rosa.

Vamos Sport Boys, ¡ toda Palermo es hincha de vosotros !

Enricuzzu

(nella foto) GLI SPORT BOYS DI CALLAO

Passione rosa: il calcio visto dagli occhi di una donna.

di Marzia Rappa


Sin da sempre esiste un luogo comune secondo il quale le donne non capiscano niente del calcio. Fortunatamente da qualche anno a questa parte, questo falso mito sta per essere sfatato del tutto, anche se la strada da fare è ancora tanta. Ci sono ancora tanti uomini che credono che le donne, solo per essere tali, e anche perchè magari non hanno mai giocato a calcio, non siano capaci di poter conoscere le tecniche o i regolamenti di questo sport, oppure provare attaccamento per una squadra, il più delle volte per quella della propria città. Ebbene non tutte le donne sono così.
Ci sono donne che amano il calcio, che seguono ogni partita della propria squadra del cuore, che tifano, non solo davanti ad una tv, ma anche allo stadio, che magari vanno in trasferta, e per lo più si intendono anche dell’aspetto tecnico-tattico di questo sport. E poi ci sono altre donne, quelle che non tollerano il marito che va allo stadio lasciandole sole a casa invece di portarle a fare shopping, o che segue la partita davanti alla tv ignorandole. Quindi bisognerebbe evitare, come in ogni situazione, di fare di tutta l’erba un fascio, e anzi iniziare ad apprezzare le donne che ogni giorno, e sempre di più, si avvicinano al mondo del calcio per passione e non per moda. Anche perché riflettendoci bene, che differenza c’è tra un uomo e una donna che hanno la stessa medesima passione per questo sport? Io, dal mio modesto parere, forse anche perché sono una donna, dico nessuno. Nessuno, perché ci sono tante ragazze come me che hanno questa passione, che, al contrario di quello che molti pensano, non seguono il calcio perché il giocatore è carino, perché è moda o per farsi belle agli occhi dei ragazzi, ma perché credono in quel poco che, di sano e spassionato, questo sport riesce ancora a regalare. La stessa identica passione che milioni di italiani, e di persone in tutto il globo hanno.
Ogni giorno in televisione si può notare che anche nell’ambito informativo che riguarda questo sport, vi sono più donne, spesso anche belle, ma che fondamentalmente sono intelligenti e competenti, come Monica Vanali o Ilaria D’amico, ma, come in tutti gli ambienti, anche in questo mondo ci sono le solite soubrette che sono messe lì, pur non avendo nessuna conoscenza, al fine di far lievitare gli ascolti, dando, spesso e volentieri, un’immagine sbagliata dell’accoppiamento donne-calcio.
Bisogna dire che anche per una donna è bello provare l’emozione generata da un goal o da una vittoria, magari sofferta, o magari raggiunta facilmente, e rimanere delusi e amareggiati quando si perde, o quando la nostra squadra del cuore attraversa un periodo buio. Ci sono emozioni che non hanno barriere sessuali, razziali, o sociali, che riescono ad unirci tutti, una di queste è il tifo per la propria squadra di calcio.
Quindi sarebbe opportuno cercare di essere meno presuntuosi e prevenuti nei confronti di quelle donne che si avvicinano a questo mondo, soprattutto quando tutto ciò ha alla base una vera passione.

martedì 29 gennaio 2008

Il raccattapalle "azzurro"

Si è parlato tanto, in questi giorni, del raccattapalle romano che ha influito sulla vittoria giallorossa ai danni dei rosanero, che quasi quasi mi è venuta voglia di raccontare una storia. Una storia vista, o come si suol dire vissuta. Una storia che ha luogo tanti anni fa…

Gennaio 1997. Il freddo di Palermo ospitava la Nazionale di Calcio del neo CT Cesarone Maldini. L’amichevole, non tanto di lusso, vedeva approdare sul prato dell’allora Favorita una modesta Irlanda del Nord, regolata qualche ora più avanti con un secco 2-0, frutto anche dell’ottima prova di un altro esordiente in maglia azzurra. Uno scugnizzo napoletano che muoveva quella sera i primi passi nella difesa azzurra e che aveva scritto nel destino una fascia da capitano ed una Coppa del Mondo alzata sotto il cielo di Berlino. Prima dell’inizio della partita, dentro una cornice spettacolare di passione palermitana, oltre duecento ragazzini selezionati dalle juniores del Palermo, vestiti in maglia azzurra, si davano la mano ai bordi del campo per salutare le due nazionali. Alcuni di loro sarebbero rimasti dietro i tabelloni per fare i raccattapalle, mentre quelli più sfortunati sarebbero stati “declassati” in tribuna centrale. Come al solito, la puntuale organizzazione palermitana volle si, che i ragazzini “tribunari” lasciassero il terreno di gioco a partita cominciata. L’ultimo di loro, perse un po’ di tempo e si ritrovò, nella fila, accanto le panchine, giusto a ridosso della linea di fallo laterale. A quel punto, non si sa cosa passi per la testa di un giovane ragazzino sul campo della Favorita con davanti i suoi eroi azzurri, ma sicuramente nulla di razionale. Ed infatti, scavando dentro il suo coraggio, il ragazzino entrò in campo, con entrambi i piedi per “sentirsi parte integrante di un’amichevole internazionale”. Mica scemo. Ma comunque pazzo. Ed infatti, un dirigente del Palermo, accortosi della bravata lo andò a tirare energicamente dalla collottola come si fa con i cagnolini troppo vivaci. Strattonandolo però, gli fece perdere l’equilibrio e il ragazzino scivolò spostando la gamba avanti. In quel momento Angelo Di Livio stava sgroppando sulla fascia e si era allungato il pallone. La gamba del ragazzino lo toccò appena, sfiorandolo ma modificandone di un nulla la traiettoria. E mentre il dirigente lo accompagnava in tribuna cazziandolo non poco, Di Livio scodellò un cross al centro che per poco Del Piero non incornava dentro. Chissà cosa sarà passato per la testa di quel ragazzino che rimase impietrito in tribuna, guardando il colpo di testa dell’attaccante azzurro andare di un pelo fuori. Fosse entrata quella palla, avrebbe partecipato attivamente ad un gol ufficiale della Nazionale Azzurra. Roba da raccontarlo ad amici e parenti fino allo sfinimento.

Rientrato fra i suoi compagni della juniores seduti in tribuna il ragazzino si prese un sacco di “batti cinque” in segno di approvazione. Il Mister, vecchia gloria del Palermo, lo guardò serissimo ma poi si lasciò andare ad un sorriso, apostrofandolo “…Enricuzzu, in partitella con noi non becchi una palla manco a pagarti e ora mi fai uno-due con Di Livio?”. E la risata collettiva che scoppiò, servì a risacaldare tutti da quella gelida serata d’inverno.

Enricuzzu

lunedì 28 gennaio 2008

Felipe

Quando gli dissero che non avrebbe più potuto giocare a pallone, Felipe fece una smorfia. Con quella gamba frantumata avrebbe fatto fatica a camminare per il futuro, figurarsi calciare una palla. Ma Felipe, dall’alto dei suoi 10 anni, fece una smorfia e disse “...passi il camminare male, ma non scherziamo sul giocare a pallone” saltando giù dal lettino. Toccò terra, la gamba non resse e cadde giù. Mamma Juanita si mise a piangere, sapeva che quella gamba non sarebbe stata mai più la stessa, come la vita del suo piccolino. Papà Carlos lo guardò serio, mentre Felipe era ancora a terra e bofonchiò “abituati da ora ad essere guardato dall’alto, perché così ti guarderanno tutti” e gli tese una mano.
Quella mattina, Felipe era in mezzo la strada, correva palla al piede verso il porticciolo dove ogni mattina papà Carlos lo aspettava per scaricare e pulire il pesce. Girò l’angolo di corsa e fu travolto in mezzo la strada. Ricorda solo un “crack” alla gamba e tante urla. Da quella mattina la vita di Felipe non sarebbe mai più stata la stessa.

Ma Felipe a terra non ci voleva stare. Quattro anni dopo infatti, la sua vita non era cambiata. La mattina andava a lavorare col padre al porto; l’odore del pesce gli piaceva, ma gli piaceva ancora di più levare un po’ di fatica dalle mani di suo padre, che spesso si assentava per lunghi periodi. Il pomeriggio aiutava mamma Juanita a vendere la frutta e accudiva Luz Maria, il suo orgoglio di fratello maggiore. La sua luce di vita. La sera teneva fede alla promessa fatta quattro anni prima sul lettino dell’ospedale, e andava a giocare a calcio nella squadretta del quartiere di Minas Gerais.
All’inizio non fu per niente facile. Quando tornò nei campetti dopo il dramma, lo guardavano tutti storto. Più della sua stessa gamba, che avrebbe avuto per sempre una cicatrice lunghissima dal ginocchio al basso polpaccio e pochissimi muscoli perché non si poteva sforzare. Avrebbe fatto “crack” di nuovo. Il primo giorno nella nuova squadra, un ragazzino più grande disse a bassa voce “guardate, abbiamo anche lo zoppo!”, e Felipe non lo digerì. Strinse i denti e non disse una parola. Prese la palla e partì nella sua folle corsa. Lo stesso ragazzino più grande gli andò incontro deciso. Felipe si buttò sulla gamba storta, ma si accorse che il dolore era forte e chiuse gli occhi; allora buttò tutto il peso sulla gamba buona e fece rotolare avanti la palla. Quando riaprì gli occhi il ragazzo grande era dietro di lui, impietrito, fulminato da una finta tanto incredibile quanto realistica. Era la stessa che faceva il grande Manè Garrincha, gli disse una sera prima di coricarlo, papà Carlos. Quell’angelo brasiliano di un tempo che fu, dalla gamba più corta, che parlava poco ma sognava molto. Felipe si girò e continuò nella sua corsa… fece sette di quelle finte dribblando tutta la squadra, portiere incluso. Arrivò davanti la porta vuota e ridendo buttò la palla sul palo. Si girò verso i suoi compagni e sfacciatamente disse “...il palo è furbo, qualsiasi cosa faccia lui non si sposta!”. Felipe si era rialzato da terra e ora guardava gli altri dalla stessa altezza.

Negli anni imparò a farsi amare, anche se rideva poco e parlava meno. Molti suoi amici giocavano solo per divertirsi, lui no. O almeno non solo. Lo rivelò un pomeriggio piovoso al suo allenatore, un calciatore mancato affondato nella povertà che vedeva correre i suoi sogni fra i piedi dei suoi allievi. Lui, Felipe, giocava per vivere. Voleva sfondare, arrivare in Europa, fare tanti soldi e levare la fatica dalle mani di papà Carlos e mamma Juanita. Voleva far studiare Luz Maria come lui non aveva potuto fare, e per far ciò vedeva solo una strada. Il calcio. L’Europa.

Venne il giorno della Finale del campionato dei “piccoli” come lo apostrofava la mamma. La squadra di Felipe incontrava una squadra di un sobborgo poco lontano. Una specie di “derby” come dicono in Europa. Ma poco importava per tutti. L’allenatore, infatti, aveva detto a tutti i ragazzini che sulle tribunette c’era un osservatore europeo. Non era la prima volta, era stato presente anche alle altre partite di campionato, ma non voleva che si spargesse la voce. “Giocate bene e non siate egoisti…” disse il Mister prima di congedare i suoi piccoli sogni volanti. Infine prese in disparte Felipe e gli sussurrò “…sai, pare che si sia innamorato delle tue gambe… mi raccomando”. Felipe fece un sorriso e indicò la lunga cicatrice sul ginocchio. “Beh, ci vuole coraggio…” esclamò. La sfacciataggine non l’aveva persa in quegli anni.
In cuor suo però, poteva apparire tranquillo, ma si scatenava un ciclone. Sapeva che su quelle tribunette oltre agli occhi della sua famiglia, c’erano gli occhi del suo futuro. Gli occhi di quella possibilità che qualcuno gli voleva togliere, ma che lui stesso si era ridato con forza e convinzione. “L’asso brasiliano Felipe sbarca in Europa”… si, non era male come titolo di giornale, pensava.

Il pomeriggio era fresco ed il tifo era caldissimo, come solo i familiari che guardano i figli giocare, sanno fare. Ad onor del vero non c’erano solo familiari per quella Finale… c’erano migliaia di persone. Quel campionato era importante nel paese.
Le foglie sfioravano l’erba mentre le maglie dei ragazzini volavano in aria. Era una partita tesissima, degna della migliore Finale. Gli avversari vincevano per 2-1 grazie alla doppietta del loro numero 9 che di brasiliano non aveva nulla: fisico possente, alto il doppio degli altri, piede ruvido e tanti muscoli. Fortunatamente Felipe aveva accorciato le distanze e la partita era ancora viva. Quando l’arbitro fischiò la punizione Felipe toccò la palla per il numero 3 che allargò sulla fascia per il numero 7. Lui dribblò un avversario, ne dribblò un secondo e arrivò davanti la porta, defilato sulla sinistra. Buttò un occhio nel mezzo e lanciò la palla cadendo a terra. Il portiere era sbilanciato. Non Felipe che arrivò in scivolata e segnò il due pari. Dagli spalti l’incitamento crebbe mentre Luz Maria gridava a perdifiato “Quello è il mio fratellone, quello è il mio fratellone!”.
Mancava davvero poco ora, solo cinque minuti alla fine, ma per Felipe il tempo non era mai stato un problema. Non ne aveva mai avuto, neanche per essere un bambino normale, quindi non gli dava tutta questa importanza. Si asciugò il sudore e prese palla sulla trequarti. Il numero 4 degli avversari gli venne di sopra subito. Lui si buttò sulla gamba storta e poi cambio sulla gamba buona… fregato. Era incredibile, pensava, come ci cascassero sempre tutti quanti anche se la faceva sempre. Era un movimento troppo naturale, gli diceva papà Carlos, “…è quasi ipnotico, è normale che ci caschino”. Felipe continuò a correre ed entrò in aria. Aveva davanti il rude numero 9 ma sapeva come superarlo. Finta a destra, gira a sinistra, passa la palla. Maledizione, non la gamba.
L’avversario agganciò la gamba storta di Felipe, confuso dalla finta, e lo buttò a terra. Mentre cadeva Felipe ebbe paura di sentire quel “crack” dolorosissimo che ormai si era scordato, ma nell’aria si sentì solo un lunghissimo fischio. Era calcio di rigore.
Felipe si rialzò da terra e sbattè la gamba storta contro l’erba. Era tutto a posto, fortunatamente. Prese il pallone e lo posizionò sul dischetto, era lui il rigorista. Fintava anche la: partiva di rincorsa come per colpire con la gamba storta, ma poi colpiva di esterno con la sinistra che era la buona. E ci cascavano sempre tutti, era incredibile.
Calcolò la rincorsa e si fermò. Era un bambino fortunato Felipe in quel momento, pensò. Un rigore alla fine, davanti all’osservatore europeo, nel silenzio surreale dello stadio, con gli occhi puntati addosso. Un bambino fortunato in mezzo ad altri ventuno che avevano la disgrazia di non avere un nome in questa storia ma soltanto un anonimo numero di maglia.
Felipe allora si girò e andò dal numero 7. Gli battè la palla sul petto e gli schiacciò l’occhio. “Vallo a battere!”. Aveva appena dato un nome a quel numero 7. Pascàl. Quello stesso Pascàl che dopo aver dribblato due giocatori gli aveva servito a porta vuota la palla del due pari. Quello stesso Pascàl che quattro anni prima, a bordo della sua bicicletta mezza rotta, non aveva visto Felipe uscire dall’angolo e gli era finito di sopra, frantumandogli la gamba e i sogni. Quello stesso Pascàl che non ebbe mai il coraggio di chiedergli scusa, ma che aveva la condanna degli occhi. Alla vista di Felipe li abbassava per senso di colpa e abbassandoli gli finivano alla vista di quella cicatrice che lui stesso, involontariamente gli aveva segnato per sempre.
Felipe lo guardò, e anche se voleva piangere gli sussurrò con un velo di ironia “Te l’avevo detto che te la facevo pagare… io ho già fatto due gol, se hai il coraggio segnalo tu il rigore decisivo!”. Per la prima volta da quando si conoscevano, Pascàl gli sorrise e come liberato da un peso andò a calciare. Di classe, una mattonata centrale che il portiere neanche vide. Corse ad abbracciare Felipe. Quello stesso Felipe che gli aveva donato parte del suo sogno. Quello stesso Felipe che anche solo per un attimo, lo aveva tolto fuori dall’anonimato di un Brasile che sogna tanto fra le polverose strade della povertà.

Gli spalti si infuocarono. Luz Maria cantava e gridava “Quello li è il mio fratellone!”. Un uomo bianco, distinto e vestito bene in tribuna, si alzò e si mise ad applaudire fino a spellarsi le mani. A papà Carlos scese una lacrima che si illuminò al sole. Mamma Juanita si girò verso di lui sorridendo, ma lui, duro lupo di mare, disse “Tranquilla… mi è entrata solo una cosa nell’occhio”.

Enricuzzu

Il profumo dell'erba

Aveva i capelli scompigliati, mori. Era gracilino di fisico, e anche scarsetto coi piedi. Ma il calcio era la cosa che più al mondo amava. Si divertiva col pallone fra i piedi, anche se spesso non sapeva controllarlo. In più giocava nella scuola calcio del Palermo e indossava un completino rosa sfavillante. Il ragazzino moro diventava cretino quando si vedeva indosso il rosa dei suoi sogni. Volava con la mente e immaginava di poter fare questo o quel dribbling fantasioso e questa o quella giocata sopraffina.
A riportarlo alla realtà ci pensò la voce rude del Mister; una vecchia gloria del Palermo mi pare. Quel giorno appariva severo mentre trasportava i birilli per il classico esercizio dello "zig-zag". Stava facendo conoscere qualcosa di nuovo a quei ragazzini di dieci anni: la disciplina. Dopo due-tre ragazzini arrivò il turno di un biondino. Tecnicamente più dotato degli altri, poteva permettersi tocchi di palla che il ragazzino moro sognava. Questa bravura però andava di pari passo con la sua arroganza, che non gli era da meno. Quella arroganza che, appena il Mister si girò, gli fece saltare i birilli "tagliando" dritto per dritto. "Ho finito!" disse con sfacciataggine. Furbizia la chiamava lui.
Toccò al ragazzino moro. Il Mister era ancora girato ma lui si mise d'impegno e non senza qualche errore cominciò a saltare lentamente i birilli. Il biondino rise e lo apostrofò: "Hei scarsetto... vai piano che ti 'gransci i scarpe!" Gia, le scarpe. Il biondino aveva delle Lotto nuove fiammanti come si usavano allora. Il ragazzino moro invece non aveva delle scarpe da calcio, ma delle scarpe usate da ginnastica di una marca sconosciuta e con le suole ultrapiatte. Poco di abbinavano col completino. Il ragazzino moro lo sapeva. Per il biondino era motivo di sfottò.

Arrivò il momento della partitella. "Voi con le casacchine" disse il Mister ad alcuni. "Voi senza" disse ad altri tra cui il biondino e il ragazzino moro. Dopo pochi minuti il biondino segnò un bel gol di piatto. Il Mister non disse nulla, si portò il fischietto alla bocca, fischò e indicò il centrocampo. Era uno dei primi impatti per quei ragazzini con la mimica arbitrale. La partita proseguì e la palla andò verso il ragazzino moro che era ralegato in difesa. Lui andò concentrato, ma prese la palla di striscio, quasi lisciandola e finì per terra. Il biondino rise di gusto, gli si avvicinò e gli disse: "Si troppu scarso... perchè giochi a calcio?". Già, perchè? Non se lo era mai chiesto. Allora gli disse la prima cosa che gli passò per la testa. Quasi un dribbling a quella domanda. Da terra prese un ciuffetto d'erba e gli rispose: "Perchè mi piace il profumo dell'erba...". "Ma l'erba non profuma!" ribbattè storcendo il naso il biondino e tornò in attacco. Dopo due minuti segnò ancora con un altro bel tirò. Il Mister fischiò, e dalla panchina gli altri ragazzini lo applaudirono. Ma la sua dedica andò di nuovo al ragazzino moro: "Hei scarsetto viristi? I' sa fare ste cose? Lascia stare il calcio..."
Posizionati in campo cominciò a piovere. Di brutto. Tutti i ragazzini alzarono gli occhi al cielo quasi intimoriti. Il Mister che aveva percepito la preoccupazione alzò la voce: "Bene. Ora se le avete le palle!". Palle che evidentemente aveva il centrale con la casacchina avversario. Un bambino poco più grande degli altri, non con la tecnica del biondino ma col doppio della forza. Sessantacinque chili per un metro e sessanta ed una mina al posto del destro che a quell'età era cosa più unica che rara. Ne sparò giusto due in pochi minuti e pareggiò la partita.
Il campo era pesante, si faticava e si scivolava spesso. Il pallone ora schizzava veloce, ora si impantanava. Il tempo stava finendo. Dalla difesa partì un lancio lungo. Il bambino moro si sganciò da dietro visto che era la fine e si mise a correre in avanti. Il biondino faceva fatica a correre con le sue Lotto nuove fiammanti e a metà strada si fermò lasciando perdere. Il ragazzino moro invece corse ancora più forte. Troppo forte per le suole ultrapiatte delle sue scarpette usate che lo tradirono e lo fecero scivolare. Tentò in tutti i modi di rimanere in piedi ma poi capì... Forse non lo stavano tradendo ma gli stavano suggerendo qualcosa. E allora lui si lasciò andare e cadde scivolando sull'erba. Con le gambe, con la schiena, scivolò, scivolò, scivolò. Il viso era ad altezza erba, il cui profumo si fece più intenso. Vide appena la palla in aria che si avvicinò e si poggiò sul suo destro. Pem! Si infilò nell'angolino opposto e lui finì la sua corsa in fondo alla rete. Non arrivò il fischio del Mister però. Il ragazzino moro da terra, tutto infangato, alzò gli occhi e comprese perchè il Mister non poteva fischiare. Le mani sbattevano l'una contro l'altra in un applauso convinto. Lasciò il pallone in fondo alla rete e si alzò contento. Ora si che il sudore e il fango appena preso si abbinavano col rosa sfavillante del completino.
Tornando verso il centrocampo incrociò lo sguardo impietrito del biondino. Ora poteva dirgliene di tutti i colori, sulla sua presunta scarsezza, sulle sue scarpe nuove, su tutto, ma non riuscì a dirgli nulla. Si chinò, prese un ciuffo d'erba, gli sorrise e gli sussurrò: "Ti sbagli... l'erba profuma eccome."

Oggi, quel ragazzino moro ha ventidue anni. Nel tempo libero gioca al calcio con gli amici, ma alle scarpette usate con le suole ultrapiatte ha sostituito un paio di Nike fiammanti. Guarda caso non riuscì più a segnare un gol come quello. Oggi quel ragazzino scrive su un blog col nick Enricuzzu anche per far capire a chi lo legge, quanto bello sia il calcio. Che lo si giochi con un paio di scarpette fiammanti, o che lo si giochi a piedi scalzi.
Per far capire anche solo per un attimo, che in un campo di calcio l'erba profuma eccome.

Enricuzzu

domenica 27 gennaio 2008

Lo stadio che non c'è

Quando mi indicano lo scavo nel muro da cui entrare, strabuzzo gli occhi. Fatico a credere che la storia del calcio passi per una modesta fessura nel cemento. Mi districo fra le erbacce e tiro avanti. Alzo la testa e socchiudo gli occhi. C’è una leggera nebbia che sfuma i contorni e non fa vedere bene. Faccio qualche passo. Poi qualche altro ancora. D’improvviso la nebbia scompare ed io mi ritrovo a centrocampo. Paralizzato. Non riesco a muovermi. Tutto d’un tratto, senza avvisi, il Filadelfia di Torino mi è entrato dentro. Sconquassandomi il petto ed uscendo come un fulmine dagli occhi. Riesco solo ad intravedere il fantasma di Valentino Mazzola venirmi incontro, dribblarmi e andare a toccare morbida la palla in rete. Mi giro quasi barcollando, con le gambe tremanti. L’urlo della notte avvolge i ragazzi del Grande Torino mentre si abbracciano festanti. Quei ragazzi che hanno colpito l’Italia nel cuore, dall’inizio alla fine. Quei ragazzi che in quello stesso prato che io stavo calpestando, avevano inanellato la magia di oltre cento partite senza sconfitte.

Alla mia destra il pennone centrale dove un tempo sorgevano gli spalti, ha ancora ammainata la bandiera granata. Per non dimenticare mai. Alla mia sinistra vedo l’unica tribunetta rimasta dell’intero stadio. Quattro gradini che si scavalcherebbero con un tiro calciato male. Tutto intorno il nulla. Ma a me continuano a tremare le gambe. Se possibile, più di prima. Mi poggio al palo di una porta per sorreggermi. Mi creda sulla parola chiunque mi legga, non ho mai visto uno stadio più maestoso di quello. Un qualcosa che ti incute un rispetto tale da farti deglutire a fatica. Uno stadio che per assurdo non c’è, ma che senti dentro fortissimo.

Ripenso a quel maledetto 4 Maggio del ’49, quando un tragico destino mise fine alla più bella favola del calcio italiano. Mi scivola una lacrima che asciugo subito. Chiudo gli occhi e faccio un respiro forte. Un alito di aria fredda mi sfiora la guancia. Capisco che è il momento di andare. Faccio un segno della croce ed a testa bassa, in rispettoso silenzio, esco dal campo. La nebbia riavvolge lenta quel luogo mistico. Quello stadio che non c’è, ma che non morirà mai.

Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in ‘trasferta’” (Indro Montanelli)

Enricuzzu

sabato 26 gennaio 2008

Il pallone di Martin

Martin abitava la. In quella casetta sulla riva della spiaggia di non so dove. Era chiusa in una conca, e per vederla ci dovevi passare di proposito. E la gente lo faceva. Ci passava di proposito.
Si perchè girava voce che questo vecchietto dalla barba lunga e splendente mettesse alla prova le persone con un pallone di calcio. "Calcialo fra le onde", ti sussurrava "e scoprirai la vita". Branchi di uomini passavano da quella spiaggia e molti avevano timore di chiedere, avvicinarsi a quel Martin che più che un saggio sembrava un mendicante che viandava con la spuma delle onde ai piedi. Ma lui ti si avvicinava sereno, con un sorriso caldo e ti sussurrava le sue parole.
Quel giorno Martin si avvicinò ad un tipo distinto, sulla quarantina, con camicia bianca splendente aperta sopra i bermuda. Lo guardò e gli porse un pallone. "Calcialo... e mandalo al di sopra delle onde. Se riuscirai in ciò, avrai il dono dell'autorealizzazione nella vita. Non avrai più obbiettivi da raggiungere e ti troverai fra le mani tutto quello che vorrai". Il signore allora sorrise, si rimboccò le maniche e guardò il mare. Le onde erano alte ma non altissime. Prese la ricorsa, calciò ma la palla fu inghiottita da un'onda spuntata all'improvviso. Calò la testa in segno di disappunto e si girò... Martin non lo stava guardando, ma stava giocherellando con la sabbia. "Pazienza" gli sussurrò e il tipo si allontanò sconsolato, mentre il pallone cavalcando una lenta onda tornava a riva.
Il giorno dopo un gruppetto di turisti passò da quella spiaggia. Un giovane trentenne guardò Martin con un sorriso accattivante e Martin glielo ricambiò. E gli passò il pallone. "Cosa fai nella vita ragazzo?" - "Vinco". Martin gli poggiò una mano sulla spalla e gli sussurrò le sue parole: "Più alto delle onde. Mai più obbiettivi. Tutto quello che vorrai. Calcialo!". Il giovane si levò la maglietta, prese la rincorsa e calciò fortissimo. Il pallone si perse in aria e poi dentro un'onda. Testa bassa. Martin era sempre li, distratto, ad ascoltare l'eco di una conchiglia. "Tu ci prendi in giro vecchio!" urlò il giovane allontanandosi velocemente. Le parole si persero nella risacca, mentre la conchiglia continuava a sussurrare la storia del mare ed il pallone, lento, tornava a riva cullato dalle onde.

Il giorno dopo ancora arrivò un giovanotto. Alto, moro e scanzonato. Martin lo adocchiò e gli lanciò la palla. "E che faccio?" chiese dubbioso il giovane. Martin si avvicinò come sempre, con aria di mistero e gli sussurrò "Guarda le onde. Sono alte. Ma se riuscirai a calciare il pallone più alto di loro ti sarai autorealizzato. Non avrai più obbiettivi nella vita e potrai stringere fra le mani tutto ciò che vorrai.". Martin poggiò il pallone sulla riva e fece due passi indietro. Il giovane guardò la palla e poi le onde. Si, si potevano superare. Fece tre passi indietro per la rincorsa e si fermò. La brezza sfiorava le guancie e alzava piccoli granelli di sabbia che si illuminavano al sole come piccoli segreti. Il giovane abbassò la testa e si girò verso Martin. "No, non voglio calciare". Martin lo guardò impassibile. "Non voglio perche voglio continuare ad avere un obbiettivo nella vita. Quando ne raggiungerò uno ne voglio un altro. E un altro ancora. Perchè se nella vita non abbiamo tutto un motivo c'è.". Martin si alzò dalla sabbia e lo abbracciò fortissimo mentre il sole tramontava su di loro nascondendo una piccola lacrima che sgorgava dai loro visi. Chi ha tutto fra le mani, il giorno che ne ha la consapevolezza, perde tutto improvvisamente. Martin lo sapeva e aveva un obbiettivo nella vita: farlo capire agli altri. Quel ragazzo aveva un pallone davanti ma non voleva perdere. Non lo ha calciato. Perchè nella vita siamo sempre troppo impegnati a pensare a cosa vogliamo per renderci conto di quello che già abbiamo o delle verità che ci sfiorando i piedi come la spuma delle onde senza che ce ne accorgiamo e lente se ne tornano via, perdendosi, in mezzo l'oceano.

Il giorno dopo un gruppo di ragazzi si incamminò su quella spiaggetta alla ricerca di Martin. Ma lui non c'era più. Al posto della sua casetta c'era una conchiglia luminosa sulla sabbia che urlava sottovoce la voce del mare e una verità che non riusciremo mai a sentire. Sulla riva, un pallone andava e tornava lento sulla spuma delle onde. Lo stesso pallone che io non ho voluto calciare.

Enricuzzu